mercoledì 21 maggio 2008

HERZOG, LA BUGIA CHE NON INGANNA


«Ho visto la mostra che la fondazione Sandretto Re Rebaudengo mi ha dedicato: mi è sembrato di vedere qualcuno che conosco ma che non capisco». Inizia così, Werner Herzog, il discorso alla platea che, martedì 15 gennaio, lo ha accolto al Museo Nazionale del Cinema di Torino.
Qui, dal 16 gennaio al 10 febbraio, è in programma una retrospettiva dedicata al suo cinema, la più vasta e completa mai realizzata, composta da oltre cinquanta film, 35 dei quali proiettati in copie ristampate per l’occasione. E’ un vero viaggio, un’avventura, spesso oltre i limiti, quella di Herzog dietro la macchina da presa, è un regalo agli occhi e all’animo del pubblico questa carrellata di luoghi e volti, protagonisti di capolavori come Aguirre, furore di Dio, Fitzcarraldo,Kinski, il mio nemico più caro, Grizzly Man.
Qualcuno in platea gli domanda se si senta più regista, documentarista o “artista”, e pronta arriva, semplice, la risposta: «non mi sento un artista, e non mi fa sentire a mio agio tracciare delle linee di demarcazione che separino finzione e documentario. Dietro quella che sembra un’invenzione può esserci qualcosa di reale. L’invenzione, comunque, non vuole mai ingannare lo spettatore, ma portarlo ad una verità più profonda, estatica».
Un’alternarsi di fiction e documentario governata dal gusto per le immagini e il rispetto per lo spettatore. Questo è Herzog, che fa fatica a “capirsi” riguardando i fotogrammi del suo viaggio tortuoso nel mondo del visivo, che ammette: «non presto davvero attenzione a dove metto i piedi ma non perdo l’orientamento». Herzog che, se dovesse dare un consiglio a un giovane cineasta, probabilmente gli direbbe di abbandonare ogni accademismo, e provare, piuttosto a «percorrere lo spazio del cinema come farebbe un calciatore». Come farebbe Baresi, per esempio, beniamino del regista tedesco, proprio per la sua capacità di stare nello spazio nel modo giusto. Con lo sguardo rivolto altrove, e non a se stesso (perché, dice Herzog, «io non amo analizzare il mio inconscio, preferisco che rimanga tale. Anzi, credo che il flagello peggiore del XX secolo sia proprio la psicoanalisi, un errore catastrofico dell’uomo»), il regista tedesco continua a dare forma a quella “visione collettiva” in cui crede profondamente. «La Cappella Sistina ne è un esempio: quel pathos era dentro l’umanità da secoli, ma solo Michelangelo è riuscito a renderlo visibile. Questo significa per me visione collettiva».
Il suo nuovo film, Encounters at the End of the World, presentato in anteprima nazionale al Cinema Massimo, viene descritto dallo stesso Herzog «una sorpresa anche per me. Sono rimasto affascinato dalla sequenza subacquea di un documentario, e ho deciso di partire per l’Antartide, dove era stata girata. Nessun sopralluogo e una troupe fatta di due persone, io e il mio direttore della fotografia: chiunque avrebbe potuto fare questo film, visti i pochi mezzi a disposizione. Devo dire che è una cosa che mi capita spesso: i progetti inciampano letteralmente in me, invadono la mia casa e la mia mente». E Werner Herzog gli rende giustizia attraverso le immagini, da buon “innamorato del Mondo” quale si definisce.

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